mercoledì 24 agosto 2011

Chiesetta Ss. Annunziata

La Chiesetta della SS. Annunziata è considerata un monumento di notevole interesse storico artistico, uno dei più singolari di tutto il territorio ionico ed un importante santuario rupestre, centro di devozione mariana e meta di pellegrinaggio da parte di tutto il territorio posto a sud-est di Taranto specialmente nel Medioevo.
La Cripta è ricavata da una grotta già Cenobio Basiliano, era ricca di dipinti murali sacri, alcuni di rara bellezza, di epoca non anteriore al secolo XI.
Sulla Chiesa rupestre venne, in seguito, eretta la Chiesa, fra il IX e il X secolo ( a quell'epoca risalgono i muri perimetrali longitudinali).
Nei secolo XII e XIII si effettuarono alcuni interventi parziali sull'edificio, senza, però, mutarne in maniera rilevante l'aspettto formale e la configurazione spaziale.
Tra il XIV e il XV secolo fu attuata una ristrutturazione generale della Cripta e della Chiesetta, altri lavori ci furono tra il XVI e il XVII secolo.
Agli inizi del XIX secolo avvenne la totale ristrutturazione dell'edificio ed il ritrovamento delle opere pittoriche.
Nella Chiesa, un tempo, vi erano non meno di 22 dipinti murali.
A causa di leggende di tesori nascosti, la Chiesetta fu sottoposta a saccheggi.

Convento San Pasquale Baylon

I marchesi della Terra di Lizzano, D. Nicola Chyurlia e la moglie D. Porzia De Luca, ebbero una grande importanza per la fondazione del Convento S. Pasquale Baylon di Lizzano; essi manifestarono la loro pia intenzione di fondare un Convento ai Padri della Provincia residenti a Napoli, in quel tempo capitale del Regno, perché da quelli dipendeva il consenso; contemporaneamente presentarono "istanze e preghiere", quasi continue, ai Religiosi dei conventi di Lecce, i quali, però, per circa trenta anni, non accettarono per diversi motivi.
Finalmente l’8 agosto 1732, Fra Gaetano di S. Nicolò, ministro provinciale, scrisse al marchese D. Nicola Chyurlia, per dargli la facoltà di erigere, nella Terra di Lizzano, un convento per ospitare i frati della Riforma Alcantarina. Il 6 giugno 1734, dopo aver espletato le necessarie formalità, i Frati presero possesso del suolo su cui doveva sorgere il Convento, la Chiesa e il giardino, utilizzato, fino ad allora, come Aia cittadina i frati, destinati a formare la fraternità religiosa, presero dimora momentaneamente presso un ospizio del luogo e vi dimorarono fino al 21 agosto 1742, data in cui si trasferirono nella nuova e definitiva residenza: il Convento S. Pasquale Baylon. Intanto i frati, nel piccolo centro e nei paesi vicini, erano ammirati per la loro disponibilità apostolica.
Alla fine del Settecento in tutta l’Europa (e in particolare nel Regno di Napoli, da 1799, anno della Rivoluzione Napoletana) si scatenò la furia anticlericale. Molti conventi furono soppressi e destinati a pubblici uffici e i religiosi, che vi dimoravano, furono allontanati dalle proprie Case Religiose.  Il Convento di Lizzano subì la stessa sorte nel 1811.
Passata questa nefasta ventata, il Comune di Lizzano, fin dal 1816, presentò ripetutamente richiesta alle competenti Autorità per il ritorno dei frati nel paese, ma non fu accolta; nel 1835 i locali furono assegnati in rendita ai Padri Ospedalieri di S. Giovanni di Dio di Taranto. Dopo varie insistenze della popolazione, i Frati Alcantarini ritornarono a Lizzano il 6 gennaio 1853, riprendendo il possesso della Chiesa, del Convento e del giardino.
Il 7 luglio 1866 il Governo italiano decretò la soppressione dei Conventi, adibendoli ad uffici pubblici ed in base a quella legge anche il Convento di Lizzano fu soppresso.
Il 29 novembre 1866 il Consiglio Comunale deliberò che gli stabili fossero adibiti ad ospizio per i poveri e asilo infantile, mentre la Chiesa di S. Pasquale Baylon rimase aperta al culto, officiata da due religiosi. Nel 1886 Padre Ferdinando di S. Giuseppe acquistò il Convento ed il giardino, ma non la Chiesa di S. Pasquale e poi, un anno dopo, li rivendette alla signorina Angelica Campo, una proprietaria di Lizzano. Nel 1889 Angelica Campo cedette l’uso e l’usufrutto del Convento e del giardino ai frati francescani.
Nel 1890 il Convento divenne Casa di formazione con la Scuola di Teologia, ma dopo quattro anni venne trasferita a Squinzano. Nel 1907 Angelica Campo morì ed il Convento passò a suo fratello Francesco a cui, dopo la morte, avvenuta il 24 dicembre 1918, successe il figlio Pietro, il quale esasperò talmente la situazione che i Superiori trasferirono l’intera fraternità, abbandonando ogni cosa, per cui, nel 1922, il Convento, libero dalla presenza dei frati, venne destinato a Caserma dei Carabinieri. Lo stesso Pietro Campo, subito dopo la partenza dei frati, vendette il Convento e una parte dell’orto al signor Giuseppe Rosati, che lo usò come deposito di paglia, tabacco e riparo ad un ovile.
Il 23 dicembre 1939, grazie all’interessamento di un’apposita Commissione, i frati fecero ritorno nel Convento di Lizzano. Riprese così la vita regolare e l’attività apostolica che sempre aveva contraddistinto i Frati. Dal 1° settembre 1942 al 15 marzo 1944 il Convento fu adibito a caserma per i militari antiparacadutisti. Finita la guerra, a partire dal 1946, Padre Stefano Marchionna, frate molto stimato ed amato dai lizzanesi, pian piano fece rifiorire la vita intorno al Convento con le varie attività liturgiche, apostoliche e culturali.

Torre dell'Orologio

La Torre dell'Orologio (XII-XIX sec.) è impostata su un torrione del castello, un tempo poco distante dall'impianto originario normanno pare fosse legata ad esso da un passaggio sotterraneo, mai ritrovato. Rappresenta una testimonianza di valore storico inestimabile. Da una prima lettura delle strutture murarie appare evidente un processo di sedimentazione attuatosi nel corso dei secoli.
La struttura di base sembra ancora riconducibile ad una torre fortificata di avvistamento e di difesa, risalente al XIII - XIV sec..Qui al piano terra esiste un unico vano a pianta quadrata con volta a botte. La parte superiore della torre è un evidente rifacimento con sopraelevazione. databile tra il XV ed il XVI sec. A seguito di tale intervento fu ricostruita la volta (carparo), che ne hanno ingentilito l'aspetto.
Tra XVIII e XIX sec. la torre divenne importante punto di riferimento per la vita del paese per l'inserimento dell'orologio e della torre campanaria. Innalzata la sua sommità, fu ricavato un apposito vano per accogliere i meccanismi dell'orologio, sormontato da un campanile dotato di due campane di diverse dimensioni,asservite all'orologio. In seguito sono stati affiancati due piccoli corpi di fabbrica ad un solo livello, adiacenti ai due lati mentre il terzo lato della torre è addossato ad uno stabile, un tempo adibito, a cinema, ma costruito, nei secoli scorsi, per evidente utilizzo militare. L'accesso ai vari locali del fabbricato avviene in modo del tutto indipendente.

Castello Baronale

Il Palazzo Marchesale (Castello) è situato ai piedi del poggio su cui gradatamente s'adagia il paese, si presenta con linee sobrie e severe. Secondo alcuni studiosi fu costruito su di un antico nucleo normanno dai baroni De Raho nel XVI secolo, di cui rimane solo un torrione.Successivamente rimaneggiato e ampliato. Secondo altri la sola parte nord-ovest è antecedente al XV secolo e quindi potrebbe riferirsi ad una fase normanna o sveva, mentre la parte sud-est è sicuramente posteriore. Il disegno architettonico ci rivela nel suo complesso ch'esso è opera quattrocentesca privo com'è di torri, di fossati, di cinte che quasi sempre fasciavano i castelli dei secoli anteriori. Ha nell'interno un breve recinto, che fungeva da atrio. Un ampio scalone conduce al primo piano dove spaziose sale si inseguono con il loro aspetto grave e severo, tanto per l'altezza dei vani, che la loro vastità. Nell'interno si scorge ancora la traccia del così detto" Pozzo della morte", nel quale forse giacciono ancora i resti delle vittime sepolte. L'edificio aveva la forma di un quadrilatero e ospitava a pianterreno il frantoio, il mulino, il granaio, i magazzini e le scuderie.
La Cappella di cui il castello è dotato, al presente chiusa al culto ed in condizioni precarie di conservazione, a sud della costruzione ed era dedicata a San Francesco di Paola. La cappella è provvista di una piccola sacrestia e di un coro con una balaustra di legno; non presenta l'abside ed accoglie all'interno una tela raffigurante San Francesco di Paola; ai lati vi sono due nicchie. L'altare è inesistente e i vari pezzi che lo componevano sono ammassati come rovine.
Un tempo il Castello era la dimora dei padroni del feudo di Lizzano, i quali cercarono di renderlo accogliente ed ospitale. Fu soprattutto con i Duchi Clodinio, feudatari di Lizzano dal 1606 al 1677, che il castello, chiamato in quel tempo il Palazzo del Duca, conobbe un periodo di grande splendore, anche perché dovette raccogliere molte persone, che si recavano nel paese di Lizzano, in occasione delle feste, organizzate in onore di San Gaetano da Thiene, patrono del paese, allora ancora beato.

Tavole di San Giuseppe

Tra le tante festività che vi sono durante l'anno, a Lizzano particolare attenzione riserva il giorno del 19 Marzo, cioè giorno di San Giuseppe, poiché per quella occassione si preparano le tavole devozionali di San Giuseppe che alcune famiglie, per voto, per tradizione o per altri motivi, usano allestire in casa, dopo aver preparato le diverse pietanze, con la raccolta di alcuni cibi compiuta nei mesi precedenti, e dopo aver confezionato pani e dolci che hanno valenza anche simbolica, distribuendo poi il tutto a quanti vogliono assaggiarne, un tempo a prevalente benifico dei più poveri.
La táula, occupa solitamente gran parte dell'ampia camera prospiciente la strada. Sui trištiéddi o cavalletti del letto matrimoniale, o su apposite e robuste strutture vengono posate lunghe assi di legno avvolte da bianche tovaglie sopra le quali cibi, dolci e pane, in un ordine ben preciso, visionate sotto lo sguardo languido e curioso del visitatore e quello soddisfatto e pio della devota seduta a lato con le mani conserte sul grembo. Ogni abitazione, dove già nel pomeriggio del 18 Marzo la táula è approntata, resta aperta a chiunque voglia entrarvi.
Le pietanze devono ritualmente essere in numero, solo indicativo e non effettivo, di tredici. Il numero di tredici piatti, richiamare forse la "tredicina" di sant'Antonio, santo di cui si ha grande considerazione, oppure è a ricordo dei dodici apostoli con Gesù.
Naturalmente, trattandosi di una festività che ricorre in periodo quaresimale, durante il quale, ancora fino a una ventina di anni fa in maniera rigorosa non si mangiava carne, vige ancora tutt'oggi il divieto di preparare pietanze a base di carne. Sulla mensa di san Giuseppe, ogni cibo e minestra compare in tre o quattro porzioni o anche, eccezionalmente, cinque, essendo i primi tre pezzi riservati alle tre persone scelte, a rappresentare la Sacra Famiglia: san Giuseppe, Maria Vergine, Gesù Bambino; il quarto pezzo offerto a chi impersona sant'Antonio da Padova e il quinto, comunque molto raro, a chi impersona san Gaetano che è il santo patrono del paese, o san Cosimo.
La cerimonia del "servir da mangiare ai santi" consisteva che fosse soltanto assaggiata ciascuna delle tredici pietanze dei "santi" seduti intorno al tavolo imbandito. "San Giuseppe" dirigeva, secondo un ordine stabilito, l'assaggio degli svariati piatti e battendo con la forchetta sul bordo del piatto, indicava che a nessuno dei convitati era più concesso di toccare la pietanza servita, cossichè chi non era svelto rimaneva a bocca vuota, con grande soddisfazione del "santo" dispettoso che, così facendo, permetteva che più abbondante fosse il cibo da distribuirsi.
Accanto ai primi piatti, vi si hapossibilità di ammirare vari tipi di fritture: dal cavolfiore all'ampasciúni (cipollette selvatiche edúli), dal baccalà alla catalogna fino ai cardi (li figghiúli), nascosti sotto un velo di dorata pasta frolla; non ultima, nella categoria delle fritture, la ncartiddáta (la "cartellata"), cosparsa di miele e anicini multicolori, che viene posta in grandi coppe o catini di argilla invetriati (li lémmuri).
I dolciumi, veramente abbondanti e vari nelle dimensioni, nei colori, nei gusti e nella forma, caratterizzano, soprattutto sotto l'aspetto visivo, le tavolte dell'ultimo ventennio e le differenziano da quelle che si approntavano precedentemente; accanto ai dolci tradizionali (li fucazzíeddi, li pizzétti ti cannélla, li pašti ti ménnula, li cazuni chiéni ti ricótta, ecc.), numerosi altri, derivati anche dalla pasticceria professionale, se non addirittura fatti preparare ai pasticcieri di professione.
Non poteva essere trascurata la sobbratáula, per la quale, oltre alla catalogna, al cardo (lu cardu calátu), all'insalata, al sedano, crudi, sono riservati frutti fuori stagione (séti, ua, marángi, milúni virníli, ficatínni, ecc.), conservati quasi in esclusiva per essere fatte figurare sulla táula, e ancora poche primizie rappresentate esclusivamente dai legumi verdi: le fave (l'únguli) e i piselli.
Di contorno ai piatti principali possono ritenersi i funghi sott'olio (fungi mucchiariéddi), le olive nere all'acqua che ben si sposano con le alici salate, i carciofi crudi o all'aceto. Il pane, nelle grandi forme in quattro pezzi unici e siglati, e in piccole taglie: li panittúdi, insieme al vino è d'obbligo, come di prammatica sono pure alcuni pani ottenuti impastando la farina con l'olio (lu picurúšciu, la puddica, la palómma) e creati in modo tale da "poter significare" pur mantenendo il loro uso, cioè quello alimentare.
Un carattere figutativo e segnico, di relativa recente acquisizione, l'hanno in maniera spiccata anche certi dolci detti la manu, lu cori, la štedda, i quali richiamano le rispettive forme:"la mano di san Giuseppe", "il cuore di Gesù", "la stella dei magi". Un discreto interesse suscita, invece, un dolce dalla forma complessa, circolare, pur esso introdotto di recente, la vóccula cu lli puricíni, la chioccia con i pulcini, pezzo unico sulla táula.
Il pane, si è detto, compare sulla táula in grandi e in piccoli formati. Si tratta di un pane speciale, devozionale, detto appunto di san Giuseppe, che trova un corrispettivo senz'altro molto più diffuso nel pane di sant'Antonio. Chi riceve la "devozione" sotto forma di pane non deve rifiutarla, né deve ringraziare. Il pane devozionale non si taglia con il coltello, ma bisogna spezzarlo con le mani; prima di mangiarlo bisogna farsi il segno di croce e dire una preghiera. Li picciddáti sono pani di tre-quattro o anche di cinque chili l'uno; per la táula se ne confezionano tre o quattro pezzi, ognuno dei quali reca sopra la sigla o lettera iniziale del nome del santo a cui è dedicato o riservato. Li panittúddi, invece, sono pani di piccolo taglio, di circa mezzo chilo, preparati in numerosissimi pezzi. Il loro uso primario è quello devozionale e alimentare. In passato, si confezionavano panittúddi di dimensioni molto più ridotte; si distribuivano, sia per la festa di san Giuseppe che per quella di sant'Antonio da Padova, per essere conservati in casa e utilizzati alla bisogna contro i minacciosi annunci del maltempo.
Ai pani e ai dolci, simbolici e funzionali insieme devono essere anteposti i piatti principali della táula, rappresentati in primo luogo dalle tagliatelle caserecce, la massa, con o senza ceci, condita con soffritto, in olio, di prezzemolo, cipolla verde e con carico di pepe a volontà, e dal grano scruscato e cotto, lu cranu štumpátu, condito alla stessa maniera della massa, che sono affiancati da una pari specialità tipica della festività di san Giuseppe: li ncartiddáti.
Lu cranu štumpátu è alimento sicuramente prelibato, ma la sua lavorazione è lunga e difficile soprattutto quando cuoce. L'uso di preparare il grano bollito in ricorrenze stabilite è molto diffuso un po' in tutto il Mezzogiorno d'Italia, a Lizzano è piatto tipico delle tavolate devozionali per san Giuseppe. Lu cranu štumpátu deriva il suo nome dal fatto che, prima di poterlo cucinare, deve essere štumpátu, cioè pestato più volte, ma non frantumato, con un grosso pestello di legno d'ulivo, la mazza, in un grande mortaio di pietra, lu štumpu, in modo che i chicchi siano del tutto spogliati dalla crusca. La fatica della sua preparazione viene ripagato dal suo squisitissimo sapore.
Negli anni passati momento importantissimo della preparazione delle ravole era quello della questua , operazione durante la quale le devote, coadiuvate, ma non sempre, dai familiari, si spácciunu, si umiliano nell'atto di elimosinare e raccogliere, di casa in casa, le offerte "per onorare il santo"; ora invece è come se la procedura si fosse capovolta, cioè sono i semplici cittadini che donano qualsiasi cosa a chi organizza le tavole, in modo tale che non si effettui più quella procedura di richiedere la questua casa per casa da parte delle devote. In passato, diverse erano le questue collettive durante l'anno, il cui ricavato serviva per pagare le spese per le feste comunitarie religiose e civili: la banda musicale, i fuochi pirotecnici, le funzioni religiose. Persone appositamente incaricate, per conto delle confraternite laicali o di specifiche commissioni per le feste, provvedevano a raccogliere di casa in casa le offerte nelle cassette recanti sul davanti l'immagine sacra relativa alla festività o al santo da solennizzare. "Nc'è nniénti pi ssan Giséppu?"(c'è qualcosa per san Giuseppe?): è la domanda con la quale le devote si rivolgono a chi apre loro la porta; e nessuno, o quasi nessuno, si rifiuta. Per onorare il santo basteranno un po' d'olio o un sacchetto di farina o un'offerta in denaro o una grossa zucca per le crostate, la cucúzza ti fucazziéddi, o pochi frutti conservati e fuori stagione o altre povere cose.
Altri doni, altre cose per san Giuseppe, continueranno ad arrivare a casa fino agli ultimi momenti, a sorpresa, spontanei, e a volte, si racconta, preceduti da sogni premonitori, protagonista e suggeritore, ovviamente, il santo. Tutti i doni in natura, ingredienti di base per dolci e pietanze, costituiscono il monte, la massa comune che sarà ridistribuita sotto forma di devozione, la tivuzzióni, offerta ora da chi, umiliandosi, l'aveva poco per volta ricevuta e amorevolmente accettata, custodita, lavorata.
Dalla táula niente può essere tolto; a nessuno è concesso di guastare e gustare in anticipo, se non con gli occhi e l'olfatto, la variopinta sintesi di giorni e giorni di intenso e spossante lavoro. La via della cucina, però, non è preclusa: l'ospitalità è totale, sacra, inviolabile, come millenni fa. Nella cucina i cuochi, indaffarati fino allo spàsimo, ma soddisfatti, prestano la loro insolita arte culinaria senza compenso, ma solo per voto o devozione, per un giorno lontani dalla loro normale attività. Il fatto che siano solo o in prevalenza gli uomini a seguire il cuocersi lento dei due cibi speciali: la massa e lu cranu štumpátu, è un perché che trova parziale risposta nella pesantezza delle caldaie, li catariéddi, da togliere dai tripodi (dial. tripiéti), a cottura avvenuta. Il fuoco è a pieno regime nel focolare, sotto grandi caldaie annerite, e lambisce pignatte giganti.
Finalmente l'assaggio di un po' di grano o, a guasto, ti massa e ccíciri può avvenire, anzi è d'obbligo sul tardi: la "devozione" non si nega, né si respinge. Questa è la legge dell'ospitalità. Soltanto il mattino seguente, quello del 19 Marzo, sul più tardi, quando ormai benedetta e visitata da tantissima gente, persino dalle scolaresche, solo allora la táula si sgarra, si comincerà cioè a sparecchiare, e solo allora la "devozione", a piattino a piattino, sarà data a "tutti": alla štrata (al vicinato), a chi vi ha contribuito con offerte o manodopera, a quanti ne facciano richiesta.
Nelle strade di sole ormai primaverile, è tutto un viavai non casuale di adulti e ragazzi. Avvolto in un tovagliolo, essi portano a destinazione il piatto della "devozione": ncartiddáti, ampasciúni fritti, pizzétti, fucazziéddi, dolci vari. Sul fare della sera, vengono preparati i falò, accesi per strada, nei crocicchi, negli spiazzi, subito dopo il passaggio della processione: punto di raccolta che terrà insieme amici, vicini e parenti tuttti insieme scaldati dal fuoco e pronti a scambiare pensieri e parole, nel tentativo di scrollarsi, per una notte, dalle preoccupazioni che li attanagliano.
Informazioni tratte dal libro "Lizzano per San Giuseppe - Le tavole devozionali: storia e costume" di S. Fischietti
Foto: Francesco Pastorelli

Museo Civico della Paleontologia e dell'Uomo

Inaugurato nel 2002, il Museo Civico della Paleontologia e dell’Uomo è ospitato nelle sale al pianoterra del palazzo Maiorano, tipico edificio di signorotti locali della metà del 1800, ubicato nel centro storico.

Il Museo, ideato da Oronzo Corigliano che, insieme alla moglie Elena ed al figlio Gianluca ha donato gran parte delle raccolte in esposizione, vuole ripercorrere, con le varie sue sezioni,... il processo dell’evoluzione della vita e delle culture dei popoli, partendo dalle prime forme di vita apparse sulla terra fino a giungere all’homo sapiens sapiens, per continuare con la sezione archeologica, la sezione delle culture locali, quella delle culture d’Africa, delle culture d’Oceania e concludersi con la raccolta d’arte contemporanea.

Nella sezione dei fossili sono esposti esemplari provenienti da ogni parte del mondo ed apparternenti a tutte le ere geologiche. E’ così possibile ammirare fossili di forme di vita estintesi centinaia di milioni di anni fa, come i trilobiti e le ammoniti, o decine di milioni di anni fa, come i dinosauri, le rudiste, ecc. Particolare attenzione viene dedicata ai fossili provenienti dalla regione Puglia e dal territorio di Lizzano. Il percorso paleontologico si conclude con i reperti (crani e strumenti litici) che documentano le origini dell’uomo e la sua evoluzione.

Si prosegue con la sezione archeologia, in cui sono esposti reperti di provenienza locale, risalenti al neolitico, all’età del bronzo ed al periodo magnogreco ed in cui è ampiamente documentata la frequentazione umana nel territorio di Lizzano e delle aree limitrofe.
Dalla sezione archeologica si passa a quella etnografica delle culture locali (civiltà contadina, tradizioni, artigianato, ecc.), in cui spicca un carro (lu travinu), mezzo di trasporto trainato da cavallo, ormai in disuso e di indubbio valore documentario per le nuove generazioni.

Di particolare interesse è la sezione dedicata alle culture dell’Africa, con maschere, sculture, oggetti vari e documenti fotografici inediti, provenienti dai vari paesi africani come il Mali, la Costa d’Avorio, il Burkina Faso, l’Etiopia, ecc. Ampio spazio è dedicato al popolo dei Dogon del Mali, uno dei popoli culturalmente più interessanti e più integri esistenti ancora oggi nel continente nero.

Molto rara è la raccolta di materiali appartenenti alle culture d’Oceania (Polinesia e Melanesia), risalente alla 2^ metà del 1800 e alla 1^ metà del 1900, in cui spiccano alcuni tessuti di “tapa”, ossia tessuti ricavati da corteccia d’albero, che oggi non sono più prodotti in nessuna parte del mondo ed un maschera plumale, che è uno dei pochi esemplari esistenti al mondo.

Le raccolte dei fossili, dell’Africa e dell’Oceania sono uniche nella provincia di Taranto ed il Museo Civico di Lizzano, nella sua specificità ed originalità, è unico in tutto il meridione. Esso si pone pertanto non solo come contenitore culturale e documentario di particolare interesse, ma vuole essere anche un luogo di incontro fra culture diverse e propulsore di tematiche di grande attualità, come la multiculturalità, l’interculturalità, ecc.

La visita si conclude con la raccolta di arte contemporanea con opere di Ernesto Treccani, Oronzo Corigliano, Franco Clary, Michele Miglionico, Adriana Notte, e tanti altri.

Per maggiori informazioni va su Museo Civico delle Paleontologia e dell'Uomo

domenica 21 agosto 2011

Sferracavalli. Festival di immaginazione sostenibile

Teatro

Sferracavalli è un festival internazionale di teatro, un punto di incontro tra la Puglia e il teatro contemporaneo dei paesi dai quali qui arrivano più migranti: Albania, Romania, Marocco, Tunisia, Senegal. Ogni edizione del festival è dedicata a uno di questi paesi. Sferracavalli seleziona gli spettacoli più belli prodotti dalle giovani compagnie del paese prescelto (quest'anno la Romania) e li invita a Lizzano. Le compagnie presentano i loro spettacoli ad Agosto all'interno di un meraviglioso cinema abbandonato del centro storico di Lizzano.

Ambiente

Sferracavalli ha un impegno concreto nei confronti dell'ambiente: i nostri manifesti sono stampati sul retro di manifesti usati, siamo fanatici della raccolta differenziata, e ci sentirete parlare tantissimo di ambiente e di futuro nei caldi pomeriggi del festival. Promuoviamo il raggiungimento del festival tramite i mezzi pubblici, e utilizziamo prodotti ecologici e con pochi imballaggi per la pulizia degli spazi. Inoltre, i nostri sponsor principali sono aziende leader della produzione di energie rinnovabili.

Accoglienza

Tutti gli artisti e gli esperti che prendono parte al festival, vengono ospitati dalle famiglie lizzanesi. Gli esercizi commerciali di Lizzano che aderiscono all'iniziativa adottano un tariffario agevolato per i soci sottoscrittori del festival. Il nostro obiettivo è quello di creare occasioni reali di scambio tra persone che favoriscano la circolazione di idee ed esperienze.

Immaginazione

Al centro di Sferracavalli c’è la convinzione che per migliorare il posto in cui viviamo ci sia bisogno prima di tutto di immaginarlo migliore e poi di avere gli strumenti per passare dal sogno alla realtà.


P.S.: Sferracavalli è il nome di una salita impegnativa che si trova alle porte di Lizzano, così impegnativa che i cavalli ci perdevano i ferri. Ma dalla cima di quella salita, la vista è bellissima.


SOMARI
con Renato Avallone, Elisa Bottiglieri, Marco Ripoldi
testo e regia di Francesca Cavallo
foto di Marco Caselli Nirmal


IDECLARE AT MY OWN RISK
con Alina Serban
di Alina Serban e Alice Monica Marinescu
regia di David Schwartz
fotografie di Vlad Petri

L-V:8-16
Directed by Ioana Paun
With Lari Giorgescu
Associated Artist: Maria Draghghici
Produced by tangaProject and UNATC with the support of Green Hours