mercoledì 24 agosto 2011

Tavole di San Giuseppe

Tra le tante festività che vi sono durante l'anno, a Lizzano particolare attenzione riserva il giorno del 19 Marzo, cioè giorno di San Giuseppe, poiché per quella occassione si preparano le tavole devozionali di San Giuseppe che alcune famiglie, per voto, per tradizione o per altri motivi, usano allestire in casa, dopo aver preparato le diverse pietanze, con la raccolta di alcuni cibi compiuta nei mesi precedenti, e dopo aver confezionato pani e dolci che hanno valenza anche simbolica, distribuendo poi il tutto a quanti vogliono assaggiarne, un tempo a prevalente benifico dei più poveri.
La táula, occupa solitamente gran parte dell'ampia camera prospiciente la strada. Sui trištiéddi o cavalletti del letto matrimoniale, o su apposite e robuste strutture vengono posate lunghe assi di legno avvolte da bianche tovaglie sopra le quali cibi, dolci e pane, in un ordine ben preciso, visionate sotto lo sguardo languido e curioso del visitatore e quello soddisfatto e pio della devota seduta a lato con le mani conserte sul grembo. Ogni abitazione, dove già nel pomeriggio del 18 Marzo la táula è approntata, resta aperta a chiunque voglia entrarvi.
Le pietanze devono ritualmente essere in numero, solo indicativo e non effettivo, di tredici. Il numero di tredici piatti, richiamare forse la "tredicina" di sant'Antonio, santo di cui si ha grande considerazione, oppure è a ricordo dei dodici apostoli con Gesù.
Naturalmente, trattandosi di una festività che ricorre in periodo quaresimale, durante il quale, ancora fino a una ventina di anni fa in maniera rigorosa non si mangiava carne, vige ancora tutt'oggi il divieto di preparare pietanze a base di carne. Sulla mensa di san Giuseppe, ogni cibo e minestra compare in tre o quattro porzioni o anche, eccezionalmente, cinque, essendo i primi tre pezzi riservati alle tre persone scelte, a rappresentare la Sacra Famiglia: san Giuseppe, Maria Vergine, Gesù Bambino; il quarto pezzo offerto a chi impersona sant'Antonio da Padova e il quinto, comunque molto raro, a chi impersona san Gaetano che è il santo patrono del paese, o san Cosimo.
La cerimonia del "servir da mangiare ai santi" consisteva che fosse soltanto assaggiata ciascuna delle tredici pietanze dei "santi" seduti intorno al tavolo imbandito. "San Giuseppe" dirigeva, secondo un ordine stabilito, l'assaggio degli svariati piatti e battendo con la forchetta sul bordo del piatto, indicava che a nessuno dei convitati era più concesso di toccare la pietanza servita, cossichè chi non era svelto rimaneva a bocca vuota, con grande soddisfazione del "santo" dispettoso che, così facendo, permetteva che più abbondante fosse il cibo da distribuirsi.
Accanto ai primi piatti, vi si hapossibilità di ammirare vari tipi di fritture: dal cavolfiore all'ampasciúni (cipollette selvatiche edúli), dal baccalà alla catalogna fino ai cardi (li figghiúli), nascosti sotto un velo di dorata pasta frolla; non ultima, nella categoria delle fritture, la ncartiddáta (la "cartellata"), cosparsa di miele e anicini multicolori, che viene posta in grandi coppe o catini di argilla invetriati (li lémmuri).
I dolciumi, veramente abbondanti e vari nelle dimensioni, nei colori, nei gusti e nella forma, caratterizzano, soprattutto sotto l'aspetto visivo, le tavolte dell'ultimo ventennio e le differenziano da quelle che si approntavano precedentemente; accanto ai dolci tradizionali (li fucazzíeddi, li pizzétti ti cannélla, li pašti ti ménnula, li cazuni chiéni ti ricótta, ecc.), numerosi altri, derivati anche dalla pasticceria professionale, se non addirittura fatti preparare ai pasticcieri di professione.
Non poteva essere trascurata la sobbratáula, per la quale, oltre alla catalogna, al cardo (lu cardu calátu), all'insalata, al sedano, crudi, sono riservati frutti fuori stagione (séti, ua, marángi, milúni virníli, ficatínni, ecc.), conservati quasi in esclusiva per essere fatte figurare sulla táula, e ancora poche primizie rappresentate esclusivamente dai legumi verdi: le fave (l'únguli) e i piselli.
Di contorno ai piatti principali possono ritenersi i funghi sott'olio (fungi mucchiariéddi), le olive nere all'acqua che ben si sposano con le alici salate, i carciofi crudi o all'aceto. Il pane, nelle grandi forme in quattro pezzi unici e siglati, e in piccole taglie: li panittúdi, insieme al vino è d'obbligo, come di prammatica sono pure alcuni pani ottenuti impastando la farina con l'olio (lu picurúšciu, la puddica, la palómma) e creati in modo tale da "poter significare" pur mantenendo il loro uso, cioè quello alimentare.
Un carattere figutativo e segnico, di relativa recente acquisizione, l'hanno in maniera spiccata anche certi dolci detti la manu, lu cori, la štedda, i quali richiamano le rispettive forme:"la mano di san Giuseppe", "il cuore di Gesù", "la stella dei magi". Un discreto interesse suscita, invece, un dolce dalla forma complessa, circolare, pur esso introdotto di recente, la vóccula cu lli puricíni, la chioccia con i pulcini, pezzo unico sulla táula.
Il pane, si è detto, compare sulla táula in grandi e in piccoli formati. Si tratta di un pane speciale, devozionale, detto appunto di san Giuseppe, che trova un corrispettivo senz'altro molto più diffuso nel pane di sant'Antonio. Chi riceve la "devozione" sotto forma di pane non deve rifiutarla, né deve ringraziare. Il pane devozionale non si taglia con il coltello, ma bisogna spezzarlo con le mani; prima di mangiarlo bisogna farsi il segno di croce e dire una preghiera. Li picciddáti sono pani di tre-quattro o anche di cinque chili l'uno; per la táula se ne confezionano tre o quattro pezzi, ognuno dei quali reca sopra la sigla o lettera iniziale del nome del santo a cui è dedicato o riservato. Li panittúddi, invece, sono pani di piccolo taglio, di circa mezzo chilo, preparati in numerosissimi pezzi. Il loro uso primario è quello devozionale e alimentare. In passato, si confezionavano panittúddi di dimensioni molto più ridotte; si distribuivano, sia per la festa di san Giuseppe che per quella di sant'Antonio da Padova, per essere conservati in casa e utilizzati alla bisogna contro i minacciosi annunci del maltempo.
Ai pani e ai dolci, simbolici e funzionali insieme devono essere anteposti i piatti principali della táula, rappresentati in primo luogo dalle tagliatelle caserecce, la massa, con o senza ceci, condita con soffritto, in olio, di prezzemolo, cipolla verde e con carico di pepe a volontà, e dal grano scruscato e cotto, lu cranu štumpátu, condito alla stessa maniera della massa, che sono affiancati da una pari specialità tipica della festività di san Giuseppe: li ncartiddáti.
Lu cranu štumpátu è alimento sicuramente prelibato, ma la sua lavorazione è lunga e difficile soprattutto quando cuoce. L'uso di preparare il grano bollito in ricorrenze stabilite è molto diffuso un po' in tutto il Mezzogiorno d'Italia, a Lizzano è piatto tipico delle tavolate devozionali per san Giuseppe. Lu cranu štumpátu deriva il suo nome dal fatto che, prima di poterlo cucinare, deve essere štumpátu, cioè pestato più volte, ma non frantumato, con un grosso pestello di legno d'ulivo, la mazza, in un grande mortaio di pietra, lu štumpu, in modo che i chicchi siano del tutto spogliati dalla crusca. La fatica della sua preparazione viene ripagato dal suo squisitissimo sapore.
Negli anni passati momento importantissimo della preparazione delle ravole era quello della questua , operazione durante la quale le devote, coadiuvate, ma non sempre, dai familiari, si spácciunu, si umiliano nell'atto di elimosinare e raccogliere, di casa in casa, le offerte "per onorare il santo"; ora invece è come se la procedura si fosse capovolta, cioè sono i semplici cittadini che donano qualsiasi cosa a chi organizza le tavole, in modo tale che non si effettui più quella procedura di richiedere la questua casa per casa da parte delle devote. In passato, diverse erano le questue collettive durante l'anno, il cui ricavato serviva per pagare le spese per le feste comunitarie religiose e civili: la banda musicale, i fuochi pirotecnici, le funzioni religiose. Persone appositamente incaricate, per conto delle confraternite laicali o di specifiche commissioni per le feste, provvedevano a raccogliere di casa in casa le offerte nelle cassette recanti sul davanti l'immagine sacra relativa alla festività o al santo da solennizzare. "Nc'è nniénti pi ssan Giséppu?"(c'è qualcosa per san Giuseppe?): è la domanda con la quale le devote si rivolgono a chi apre loro la porta; e nessuno, o quasi nessuno, si rifiuta. Per onorare il santo basteranno un po' d'olio o un sacchetto di farina o un'offerta in denaro o una grossa zucca per le crostate, la cucúzza ti fucazziéddi, o pochi frutti conservati e fuori stagione o altre povere cose.
Altri doni, altre cose per san Giuseppe, continueranno ad arrivare a casa fino agli ultimi momenti, a sorpresa, spontanei, e a volte, si racconta, preceduti da sogni premonitori, protagonista e suggeritore, ovviamente, il santo. Tutti i doni in natura, ingredienti di base per dolci e pietanze, costituiscono il monte, la massa comune che sarà ridistribuita sotto forma di devozione, la tivuzzióni, offerta ora da chi, umiliandosi, l'aveva poco per volta ricevuta e amorevolmente accettata, custodita, lavorata.
Dalla táula niente può essere tolto; a nessuno è concesso di guastare e gustare in anticipo, se non con gli occhi e l'olfatto, la variopinta sintesi di giorni e giorni di intenso e spossante lavoro. La via della cucina, però, non è preclusa: l'ospitalità è totale, sacra, inviolabile, come millenni fa. Nella cucina i cuochi, indaffarati fino allo spàsimo, ma soddisfatti, prestano la loro insolita arte culinaria senza compenso, ma solo per voto o devozione, per un giorno lontani dalla loro normale attività. Il fatto che siano solo o in prevalenza gli uomini a seguire il cuocersi lento dei due cibi speciali: la massa e lu cranu štumpátu, è un perché che trova parziale risposta nella pesantezza delle caldaie, li catariéddi, da togliere dai tripodi (dial. tripiéti), a cottura avvenuta. Il fuoco è a pieno regime nel focolare, sotto grandi caldaie annerite, e lambisce pignatte giganti.
Finalmente l'assaggio di un po' di grano o, a guasto, ti massa e ccíciri può avvenire, anzi è d'obbligo sul tardi: la "devozione" non si nega, né si respinge. Questa è la legge dell'ospitalità. Soltanto il mattino seguente, quello del 19 Marzo, sul più tardi, quando ormai benedetta e visitata da tantissima gente, persino dalle scolaresche, solo allora la táula si sgarra, si comincerà cioè a sparecchiare, e solo allora la "devozione", a piattino a piattino, sarà data a "tutti": alla štrata (al vicinato), a chi vi ha contribuito con offerte o manodopera, a quanti ne facciano richiesta.
Nelle strade di sole ormai primaverile, è tutto un viavai non casuale di adulti e ragazzi. Avvolto in un tovagliolo, essi portano a destinazione il piatto della "devozione": ncartiddáti, ampasciúni fritti, pizzétti, fucazziéddi, dolci vari. Sul fare della sera, vengono preparati i falò, accesi per strada, nei crocicchi, negli spiazzi, subito dopo il passaggio della processione: punto di raccolta che terrà insieme amici, vicini e parenti tuttti insieme scaldati dal fuoco e pronti a scambiare pensieri e parole, nel tentativo di scrollarsi, per una notte, dalle preoccupazioni che li attanagliano.
Informazioni tratte dal libro "Lizzano per San Giuseppe - Le tavole devozionali: storia e costume" di S. Fischietti
Foto: Francesco Pastorelli

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